Kipchoge e Ibarguen atleti del 2018

04 Dicembre 2018

Nel gala degli IAAF Athletics Awards a Montecarlo, premiati il maratoneta keniano e la saltatrice colombiana. Stelle nascenti l’astista svedese Duplantis e la statunitense dei 400hs McLaughlin.

Eliud Kipchoge e Caterine Ibarguen sono gli atleti mondiali dell’anno. Questo il verdetto degli IAAF Athletics Awards, per premiare il re e la regina del 2018 nello show a Montecarlo. Due coetanei, nati nell’84, e due prime volte: non aveva mai vinto un maratoneta, né una sudamericana. Il keniano ha demolito il record del mondo sui 42,195 chilometri a Berlino, con il formidabile crono di 2h01:39 e un miglioramento di oltre un minuto, proseguendo una carriera strepitosa in cui ha vinto dieci maratone sulle undici disputate, tra cui quella olimpica di Rio. Al femminile la colombiana ha messo a segno tre doppiette lungo-triplo sulle pedane dei salti: Diamond League, Continental Cup e ai Giochi centramericani e caraibici. Premiate anche le “Rising Star”, gli astri nascenti: l’astista svedese Armand “Mondo” Duplantis, che a 19 anni ancora da compiere è diventato il secondo uomo di sempre all’aperto (6,05) con il successo agli Europei di Berlino, e la statunitense Sydney McLaughlin, primatista mondiale under 20 dei 400 ostacoli con 52.75. Nella riunione del Consiglio IAAF, svolta oggi, assegnati a Budapest (Ungheria) i Mondiali del 2023 che quindi torneranno in Europa dopo le edizioni di Doha 2019, per cui sono stati approvati gli standard internazionali di qualificazione, e Eugene 2021.

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di Giorgio Cimbrico

ELIUD, OLTRE IL LIMITE - Eliud Kipchoge è il secondo keniano dopo David Rudisha a conquistare il titolo di Atleta dell’Anno. Il terzo non trascurando le radici del danese Wilson Kipketer. Nella Bibbia, Eliud generò Eleazar; nella maratona Eliud ha generato un record mondiale che promuove il 34enne del distretto delle Nandi Hills al titolo ufficioso e terribilmente reale di primo maratoneta della storia per quello che ha fatto, per quel che potrà ancora fare con quel suo passo metronomico, per quella sua capacità di resistenza alla fatica accompagnata a una mai accantonata calligrafia.

Con lo sfondo della porta di Brandeburgo, Kipchoge ottiene quel che ancora mancava nella sua collezione: il record del mondo battuto, demolito di 1:18, portato a 2h01:39. È necessario tornare al ’67 e all’angoloso australiano Derek Clayton per trovare un progresso maggiore, 2:24. Ora, senza artifizi, senza plotoni di lepri, senza sentire sotto le suole l’asfalto di un autodromo, è a 100 secondi da quella porta iniziatica che sfiorò per 25 secondi a Monza, in un’alba livida. E il ricordo torna fatalmente più indietro, al suo primo apparire, a quindici anni fa quando un 19enne dal volto e dal corpo meno tirati all’osso diede vita, a St Denis, a un emozionante finale dei 5000 lasciandosi alle spalle Hicham El Guerrouj e Kenenisa Bekele.

“Sono qui per il record personale”, aveva detto alla vigilia esibendo una maglietta che portava l’annuncio “Berlin WR”.

È stato di parola: il record personale, 2h03:05, è stato spazzato, così come il 2h02:57, datato 2014, di Dennis Kimetto, keniano come Eliud, nato nella generosa Eldoret, capace quattro anni fa di scrivere il settimo record mondiale sullo scorrevole percorso berlinese. L’ottava sinfonia è toccata a Eliud. La prima, giusto vent’anni fa, venne scritta dal brasiliano Ronaldo da Costa, 2h06:05. Da Eliud avrebbe preso un chilometro e mezzo.

Kimetto aveva lasciato un segno - primo sotto le 2h03 - e quella seconda parte in 1h01:12, mezzo minuto più veloce della prima, apparteneva a una dimensione assoluta e stordente. Eliud ha fatto meglio, molto meglio: 60:33 sui secondi 21 km e 100 metri riproponendo l’andatura ideale dei 21 orari che aveva offerto nell’alba livida di Monza, nella primavera scorsa, quando nella prova “in vitro” organizzata dalla Nike (Breaking2, spezzare le due ore) aveva chiuso 25 secondi al di sopra dell’obiettivo.

Il film della gara ha avuto un andamento folle e regolare: Kipchoge via subito, in compagnia di tre lepri, lasciando subito a distanza Wilson Kipsang, che qui aveva portato il record a 2h03:23 infliggendo proprio a Eliud l’unica sconfitta della sua vita da maratoneta. Il ritmo sollecitato da Kipchoge porta a riscontri formidabili già nei primi segmenti (14:24 ai 5000, 29:01 al 10° km) e costringe alla resa due delle tre lepri poco dopo il 15° chilometro. Gli rimane Josphat Boit che lo guida alla mezza maratona in 1h01:06 prima di rialzarsi al 25° km. A quel punto, quando mancano 17 km, Kipchoge è solo e la proiezione gli assegna un tempo attorno alle 2h02. Ma è ancora in grado di lasciarsi alle spalle un 5000 in 14:16, dare uno scossone a quanto poteva esser previsto, chiudere a una media di 2h53 a km affibbiando agli altri distacchi da tappa alpina di un tempo: Kipruto e Kipsang a 5 minuti, Nakamura e Tadese a 7. Un confronto, sempre di ambito berlinese: dieci anni fa Haile Gebrselassie diventò il primo a superare, per un secondo, la barriera delle 2h04. Nel faccia a faccia virtuale con Eliud, avrebbe accusato un minuto a metà gara e 2:20 all’arrivo.

Kipchoge è campione olimpico, ha vinto tre volte a Berlino, tre volte a Londra, ora è primatista mondiale e “non ho le parole per descrivere quello che sto provando. Negli ultimi 17 km, affrontati in solitudine, è stata molto dura ma sapevo di poter andare sino in fondo. È stato in quei momenti che ho pensato al lavoro che avevo fatto in Kenya. È servito a spingermi”.

È un nostro contemporaneo ed è già nella storia. Una recherche porta a ripercorrere il suo nobile passato in pista: molti altri grandi interpreti della strada non ne possiedono neppure un quarto. La comparsa in scena risale al 2003, Mondiali parigini: in possesso di una data di nascita controversa (il 1986, poi corretto in 5 novembre 1984: in ogni caso, giovanissimo) è in grado di piegare, in fondo a un graduale e avvincente aumento della velocità, Hicham El Guerrouj e Kenenisa Bekele, l’uno e l’altro impegnati a provare la doppietta dopo i successi nei 1500 e nei 10000. In tre in 31 centesimi, sul piede dei 12:53.

Magnifico.

La collezione personale del giovanotto, che viene dal generoso distretto dei Nandi, una delle miniere dell’atletica keniana ed è allenato dal compaesano Patrick Sang nobile interprete delle siepi agli inizi dei Novanta, si arricchisce con il bronzo di Atene (gli stessi del podio parigino, ma il marocchino e l’etiope davanti a lui) e l’argento di Pechino (alle spalle di Bekele) mentre ai Mondiali Kipchoge conquista la seconda medaglia - secondo, piegato da Bernard Lagat - a Osaka 2007. Tutto e sempre sui 5000, quella che sembrava la sua distanza. In quell’anno, comunque, anche 26:49, prima volta sulla distanza.

Il Kipchoge maratoneta fa capolino cinque anni fa, ad Amburgo quando regala un esordio a molte stelle: vittoria in 2h05:30. Pochi mesi dopo, a Berlino, estirpa più di un minuto, 2h04:05, ed è secondo (prima e unica sconfitta) dietro a un Wilson Kipsang da record mondiale, 2h03:23. Nelle altre uscite, vittorie a Rotterdam, a Chicago (sfiorando il personale in 2h04:11), a Londra in 2h04:42, a Berlino in 2h04:00, ancora a Londra, 2h03:05, a 8 secondi da Kimetto, e a Rio in fondo a una corsa reale. Prego, olimpica. A Tokyo proverà a scavalcare i doppiettisti Bikila e Cierpinski e diventare il più grande di sempre. E se già lo fosse?

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CATERINE, IL GRAFFIO DELLA PANTERA - Caterine Ibarguen, la più grande atleta espressa dalla Colombia, è anche la prima sudamericana a conquistare il titolo di Atleta dell’Anno. Era alla sua quinta nomination, dopo esser finita nella rosa delle papabili nel quadriennio 2013-2016. È il premio a una carriera interminabile (un oro olimpico, due mondiali, una collezione di podi importanti, la quinta posizione nella lista di tutti i tempi con il 15,31 che ottenne quattro anni fa proprio a Montecarlo) e a una stagione che la 34enne di Apartado (“dove ho vissuto una povertà felice”, ricorda lei) ha interpretato tutta d’un fiato, con entusiasmo, con allegria, tornando a concedere una forte attenzione anche al lungo frequentato in gioventù (così come il salto in alto), e andando a firmare un record personale, 6,93, che la colloca al quarto posto nella lista mondiale di stagione. Nel triplo, ovviamente, ha impresso il solito dominio: sei delle sette migliori misure dell’anno sono patrimonio suo. Il picco è stato toccato al meeting di Rabat, 14,96.

Agonista di grande temperamento e viaggiatrice senza confini, da un capo all’altro del mondo, Caterine è scesa quest’anno otto volte sulla pedana del triplo allineando altrettante vittorie. Le uniche due battute d’arresto del 2018 sono venute nel lungo, a Losanna e a Birmingham. Per il resto, percorso netto, con doppia vittoria lungo-triplo nei casalinghi Giochi del Cac (Central American and Caribbean Games) di Barranquilla, replicata alla Continental Cup di Ostrava, dopo aver ottenuto l’accoppiata anche nelle classifiche finali della Diamond League.

Alle spalle, una carriera lunghissima, con prime tracce lasciate nel secolo scorso quando, lasciata la pallavolo, entra nel regno dei salti. La svolta nel 2008 dopo l’incontro, a Puerto Rico, con il cubano Ubaldo Duany, lunghista di valore diventato tecnico da vertice mondiale. A febbraio taglierà il traguardo dei 35 anni, senza contemplare l’idea del ritiro. Già programmato un periodo di allenamento a Formia e a Ostia, dove è stata in passato e dove è popolarissima per la sua simpatia, la sua esuberanza.

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