Fiasconaro, 70 anni e un record eterno

17 Luglio 2019

Venerdì 19 luglio il compleanno di "March", il ghepardo implacabile che spostò i confini degli 800 metri

di Giorgio Cimbrico

Marcello Fiasconaro sbocciò come una protea, il magnifico fiore del Sudafrica, correndo con qualcosa che è difficile definire: coraggio, desiderio di sfida, esplorazione dell’ignoto. Paura, incertezza, mai. Più che lo springbok, altro simbolo del Sudafrica, il ghepardo. Ma un ghepardo buono, non sanguinario, implacabile e implaccabile.

Il March che nessuno ha dimenticato è stato quello, sconfitto e invitto, come in un magnifico racconto di Hemingway, della finale degli Europei del ’74: 50.14 alla campana, prima di spegnersi, di lasciar strada all’istriano Luciano Susanj, a un giovane Ovett, a un Taskinen finlandese che visse il suo giorno dei giorni per impallidire in fretta. Perché quella follia dentro il boato che lo accompagnava? Perché, sapendo che quel ritmo lo avrebbe portato all’autodistruzione, non all’1:42 di un virtuale, lontanissimo approdo? Perché Marcello era il centro o l’ala che, avuta la palla, doveva evitare i placcaggi e volare verso la meta. Perché aveva l’ardimento che non poteva esser spento dal pulsare del dolore, da un impedimento fisico.   

Marcello è stato come Amleto, ha affrontato il mondo e la sua cruda realtà per finire negli inciampi della sorte. Avesse avuto solidi tendini, come le corde dei violini disegnati e tagliati da Guarneri o da Stradivari, avrebbe battuto con la sua irruenza leonina l’attendista Dave Wottle a Monaco ’72, avrebbe portato il record del mondo a dimensioni che sarebbero diventate abituali sul finire degli anni Settanta e agli albori degli Ottanta quando la doppia impresa di Seb Coe diede nuove fisionomie a una delle distanze più affascinanti e misteriose: gli 800 sono un linea di confine, un terreno su cui hanno finito per battersi quattrocentisti, migliaroli, puristi del mezzo miglio.

Quale è la chiave? Accettare la battaglia? Rifuggere dal contatto? La storia dice che Harbig nel ’39, Fiasconaro nel ’73 (entrambi nello stesso luogo, l’Arena napoleonica di Milano) e Rudisha nel 2012 esplorarono nuove frontiere in fondo a navigazioni in solitario, e la rotta seguita da Marcello risultò la più imprevista, la più stordente.

Vale la pena tuffarsi in quel 27 giugno 1973, ore 22.30, Italia-Cecoslovacchia: 25.0 ai 200, 51.2 alla campana, 1.16.5 ai 600, 1:43.7 al traguardo, dopo un 27.2 sull’ultimo segmento. Distribuzione esemplare: 51.2+52.5. due secondi netti a Jozef Plachy. Il record avrebbe tenuto tre anni e un mese: nella finale olimpica di Montreal ’76, Alberto Juantorena 1:43.50 davanti a Ivo Van Damme 1:43.86. Van Damme sarebbe morto pochi mesi dopo, in un incidente d’auto, a 22 anni.   

Marcello è una galleria di immagini, molte in bianco e nero e così più crude e vere: a testa china dopo esser stato allontanato dallo starter di Oslo, appena prima della più famosa invasione di campo dell’atletica azzurra. Con un’espressione stupita appena dopo aver passato il traguardo di Helsinki e aver portato a termine la missione: Jan Werner era stato marcato e battuto, ma quel Jenkins, da dove era sbucato? Marcello in maglia a strisce orizzontali bianche e verdi, con inevitabile profumo di rugby, e un avvio incespicante al suo esordio italiano, Marcello, subito accettato, amato, adorato in un anticipo di delirio mediatico, di contatti social che potevano essere solo diretti, fisici.

Un testimone attendibile ricorda che la sera del record del mondo indoor dei 400 Marcello salvò solo gli slip dalla furia gioiosa degli aficionados. Quella sera, 15 marzo 1972, richiamò al Palasport di Genova 10.000 spettatori, più o meno quanti erano accorsi per i Beatles prima, per i Rolling Stones poi, per vederlo sottoporre a dura prova la pista in acero canadese in quell’assalto ben preparato: il piccolo polacco Andrzej Badenski, per struttura ed esperienza, era uno sparring perfetto. La missione fu compiuta in 46.1, in un boato che durò quanto la corsa. E ora March, settant’anni e nonno. Da non crederci.

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